Ricordo ancora il giorno in cui tutto è cominciato.
È un’uggiosa giornata di gennaio. Sono stesa sul divano, e avverto quello stato d’animo di malinconia e apatia che segue sempre, dopo una fase di euforia, ad un calo di adrenalina.
Il 2018 ci ha da poco salutati, con fuochi d’artificio, botti scoppiettanti, brindisi in strada, brutti ricordi da lasciare alle spalle, buoni propositi e speranze da gettare al futuro. E quando giunge, finalmente, l’epilogo tanto atteso, ecco che subentra d’improvviso il peso di un nuovo inizio. Quelli che il giorno prima erano sogni e aspettative, l’indomani si trasformano, ineluttabilmente, in inquietudini e timore del vuoto che si ha di fronte.
Forse – penso – la paura nasce da quella rappresentazione del tempo come una linea retta che si perde oltre l’orizzonte, che potrebbe interrompersi da un momento all’altro senza preavviso e che si allontana, sempre di più, dal punto di origine.
Paura di perdersi.
Paura di finire.
Paura di dimenticare.
Ma poi mi domando. Perché se la Terra è rotonda e se ruota intorno al Sole (a sua volta rotondo), anche il tempo non può esserlo? E se quella che apparentemente sembra la fine, in realtà fosse solo l’inizio di tutto?
Per associazione di idee, senza però capire fino in fondo la connessione con questi pensieri, mi sovviene un’osservazione che feci a mia madre, tanti anni prima, quando avevo pochi anni di vita. Con quella schietta spontaneità con cui i bambini sono soliti esprimere concetti trascendenti, le dissi, guardando la figura del mio bisnonno di fronte alla finestra di cucina, intento a fumare un sigaro spento: “Mamma, secondo te se una persona stesse sempre davanti ad uno specchio, senza mai staccare lo sguardo, si trasformerebbe lo stesso?”. Di fronte alla sua espressione sconcertata e divertita, le dissi: “Gli occhi sono l’unica parte del corpo che non invecchia mai.”

Mentre sono immersa in questi vaneggiamenti, apro il cassetto della libreria ed estraggo l’album con le foto di famiglia, pieno di primi piani scattati ad arte. Non so ancora spiegarmi il perché. Ma l’istinto mi porta a prendere una matita e un vecchio blocco di fogli ingialliti. Il risultato che ne deriva è questo.

 

“Che strano” – penso – “Anche la pupilla dell’occhio è rotonda”.

Il cerchio è una forma perfetta. E nel Dna di ognuno di noi è scritta, con tratti indelebili, la formula magica della perfezione.
È da qui che nasce la mia passione per il ritratto.

Per diletto e per fare un po’ di pratica, inizio a fare timidi esperimenti, tentando di riprodurre volti di personaggi famosi, tratti da foto in bianco e nero, prima con una semplice matita HB e in seguito con il carboncino.
I primi schizzi sono visi un po’ deformi e sproporzionati. Ma piano piano la tecnica si affina e arrivano, finalmente, risultati soddisfacenti… Non saranno proprio identici, ma un pochino Audrey Hepburn e Stanlio e Ollio li ricordano!

Dopo che ne ho fatti alcuni, mi diverto ad unirli e a fonderli, esaltando i loro sguardi, rivolti in direzioni diverse, senza mai incrociarsi.

Ora che ho preso dimestichezza con i nuovi strumenti del mestiere, sento il bisogno di andare oltre. Non voglio più dipingere personaggi. Ma le persone della mia vita.

Per dare avvio a questo mio proposito, non posso che iniziare che…da me. Sembra assurdo, ma la cosa più difficile in assoluto è dipingere il proprio autoritratto. Ognuno di noi pensa di conoscere se stesso meglio di chiunque altro. In realtà, non è proprio così; perché, se è vero che tutto sappiamo di noi, l’unica cosa che non saremo mai in grado di fare è quella di vederci vivere.

Proseguo il mio percorso, con due ritratti che rappresentano due persone importanti della mia vita, tratti da due foto datate 1942 e 1969. Non voglio svelare chi sono, perché sono un po’ gelosa dei miei ricordi. Dico solo che sono padre e figlia. Il soldato e la sposa.

Con il tempo, il bianco e nero non mi bastano più. Se il mondo è a colori un motivo ci sarà…
Fin da piccola sono stata affascinata dalla figura dei madonnari. Li ho sempre visti come angeli caduti sulla Terra, incaricati, con i loro gessi polverosi, di proiettare la luce di Dio sull’asfalto grigio delle strade. Sembrano poveri, ma in realtà sono le persone più ricche al mondo. Perché hanno la fortuna di poter custodire, nelle loro tasche bucate, la chiave di accesso ai giardini segreti dell’infinito.
Per dare colore ai miei volti, voglio provare anch’io le crete dei madonnari.

Non so come spiegarlo, ma quando dipingo mi sento viva. C’è un preciso istante, indefinito, in cui ho la sensazione che le crete che scorrono sul foglio donino l’anima al volto che ho di fronte. Allora capisco che l’unico motivo per cui ho iniziato a dipingere è la brama di sprigionare il tempo.
Ho avuto la fortuna di avere conosciuto tutto questo quando la Terra ancora girava su se stessa intorno al Sole, in balia dei suoi ineluttabili moti di rotazione e di rivoluzione. Poi arriva il giorno in cui il mondo si ferma. Non sono le pareti bianche che ci rendono prigionieri a spaventarci. Ma quello che c’è oltre. Ciò che più ci fa paura non è vivere in uno spazio chiuso, ma è la coscienza di dover fare i conti con le nostre voragini interiori.
Sembra strano, ma spesso è proprio nel buio e nell’oscurità che riusciamo a trovare delle risposte.
In mezzo al dolore e alla paura di svanire, tra le tante, ho capito una cosa. Ciò che guida il nostro tortuoso cammino è l’assidua ricerca di ciò che ci completa.
Il pezzo mancante della mia vita, ora, è poter scrivere questa storia.

 

IL PEZZO MANCANTE

SCENOGRAFIA

LA STANZA SUL CIELO